Si direbbe che la strategia stragista abbia costituito una fenomenologia endemica e continuamente affiorante nella storia della Repubblica Italiana, almeno fino ai primi anni Novanta e ancora oggi si protraggono indagini, processi e ricostruzioni lungo quel filo di sangue che attraversa Piazza Fontana, Piazza della Loggia, il treno Italicus, la stazione di Bologna, Capaci, via D’Amelio, via dei Georgofili etc.
La strage siciliana del 1° maggio 1947 di Portella della Ginestra può essere considerata come la prova generale di questa via italiana alla gestione dei conflitti politici, sociali, economici e malavitosi.
Una strage che ha un prologo importante: undici giorni prima si erano svolte le elezioni per l’istituzione dell’ARS, l’Assemblea Regionale Siciliana, organo politico centrale della regione a statuto speciale Sicilia. Al cosiddetto “blocco liberal-qualunquista” e alla Democrazia Cristiana andarono le cariche maggiori ma la coalizione PCI, PSI e PdA (Partito d’Azione) ottenne il maggior numero di voti e questo determinò uno stato d’allarme in un’ampia rete di interessi politici, economici, mafiosi, indipendentisti e in non meglio precisate “frange statunitensi”.
Quel 1° maggio diverse migliaia di contadini e lavoratori si riunirono nella località Portella della Ginestra, nel comune di Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, per festeggiare la giornata dei lavoratori e la performance elettorale dei partiti della sinistra e per chiedere la Riforma Agraria e migliori condizioni di lavoro per i braccianti agricoli.
Ma a quell’incontro qualcuno aveva convocato un personaggio che con la festa dei lavoratori non c’entrava nulla: il bandito Salvatore Giuliano e la sua banda e si racconta che Giuliano avesse ricevuto l’incarico di compiere la strage tramite una “lettera”; lettera che sarebbe stata bruciata subito dopo la lettura.
Alle 10 del mattino del 1° maggio 1947 gli uomini di Giuliano aprirono il fuoco a colpi di mitra sulla folla ignara; i morti furono 11, di cui tre bambini ma un numero imprecisato morì successivamente a causa delle ferite.
Nei giorni successivi si verificarono attentati con bombe a mano e colpi di mitra alle sedi del PCI di Monreale, Carini, Cinisi, Terrasini, Partinico, S. Giuseppe Jato con un morto e numerosi feriti.
La caccia all’imprendibile bandito Giuliano si concluse solo tre anni dopo, nel 1950, con l’assassinio da parte del suo guardaspalle Gaspare Pisciotta; un assassinio molto probabilmente commissionato perché il bandito era diventato scomodo, troppo incontrollabile e probabile fonte di pericolose rivelazioni. È altamente probabile che a Pisciotta venne affidato anche l’incarico di depistare le indagini fornendo false notizie agli inquirenti; quando venne catturato fornì dichiarazioni che parvero subito inattendibili. Malgrado questa obbedienza Pisciotta non sfuggì alla severa legge del sistema mafioso. Probabilmente si aspettava un trattamento di riguardo per aver tolto di mezzo Giuliano, invece si trovò con una condanna all’ergastolo da scontare all’Ucciardone e nella scomoda posizione di chi poteva fare rivelazioni altrettanto scomode.
È così che il 9 febbraio 1954, nella sua cella, bevve un caffè al quale era stata aggiunta una dose letale di stricnina; morì 40 minuti dopo tra atroci sofferenze addominali nell’infermeria del carcere. Le indagini rivelarono che nel carcere siciliano la stricnina era utilizzata come veleno per i topi.
Una fine simile toccò a quasi tutti i membri della banda.
Il processo di Viterbo, istruito per giudicare i colpevoli della strage, durò dal 1950 al 1953 e si concluse con la sentenza che stabiliva Salvatore Giuliano e la sua banda responsabili unici e autonomi della strage.